Praticare per migliorare
Masticare amaro non è piacevole, ma è quasi sempre utile; ringraziamo chi ci offre la possibilità di prendere consapevolezza dei nostri limiti e ricordiamo sempre che pratica e lavoro sono i compagni indispensabili per prepararci alle importanti prove a cui la vita ci sottopone.Come ci si sente ad essere bocciati ad un esame di passaggio di grado che hai preparato per mesi, che hai eseguito al meglio delle tue possibilità e che credi di aver passato sino alla pubblicazione dell’esito?
Ve lo dico io, non molto bene.
Le emozioni si alternano tra loro in rapida successione: delusione, irritazione, smarrimento, perplessità e chi più ne ha più ne metta.
Capita spesso, specialmente quando questo “incidente di percorso” avviene all'inizio della carriera, che prenda il sopravvento va voglia di abbandonare, di buttare tutto alle ortiche, di sentirsi inadatti, malcompresi o finanche ostacolati nella propria progressione.
Chi riesca a superare questi sentimenti fin troppo umani, scoprirà allora uno dei tanti valori aggiunti della pratica, che consentono di trarre vantaggio e guadagno anche da situazioni (apparentemente) negative.
“Ciò che non mi uccide, mi rende più forte”
Nel 1888 Friedrich Nietzsche, nel suo “Il crepuscolo degli idoli”, scrisse: “Ciò che non mi uccide, mi rende più forte”. Una frase che non crediamo necessiti di ulteriori spiegazioni ed a cui ci permettiamo piuttosto di affiancare una breve poesia attribuita a Miyamoto Musashi, uno dei più famosi spadaccini del Giappone feudale, che recita: “Sotto la spada alta levata / C’è l’inferno che ti fa tremare / Ma fai un passo avanti e troverai / La terra della beatitudine.”Pur nelle loro tante differenze le due citazioni contengono un messaggio comune: quando possiamo (e vogliamo...) superare uno degli ostacoli che incontriamo sulla Via, questo non è solo un traguardo in sé ma è anche l'occasione per effettuare una sorta di “passaggio di livello” in cui acquisiamo (o ci rendiamo conto di avere già acquisito) delle doti che non avevamo.
Questo è ovviamente evidente nel momento in cui l'ostacolo è superato con successo, ma vale la stessa cosa nel momento in cui rimane fermo a sbarrarci la strada? Riteniamo di si, perché ogni evento è una esperienza e pertanto avrà sempre qualcosa da insegnare a chi abbia voglia e capacità di apprendere, fosse anche solo l'umiltà di ammettere di non essere ancora in grado di avanzare e la pazienza di attendere il momento propizio.
“Investire nella perdita”
Una delle frasi più citate dai praticanti delle discipline interne è che per imparare bisogna essere pronti ad “investire nella perdita”, principio che – come è facile immaginare – per la cripticità del motto e per le implicazioni psico-emotive che comporta, ha sollevato e solleva accese discussioni volte ad individuarne il “significato autentico”.Come spesso accade questa frase, come tante altre, non ha necessariamente un significato universale a certamente offre a ciascuno un significato “autentico” sulla base della esperienza e sensibilità di ognuno, e quindi – quasi prescindendo da ciò che l’autore stesso voleva dire – è importante che ciascuno scopra se, quanto e come questo principio sia in sintonia col suo proprio sentire.
Per la cronaca, pare che la versione “originale” sia "chi kui", che nella traduzione in inglese di Benjamin Pang-Jeng lo e Marin Inn dei “13 saggi sul Tai Chi Chuan” di Cheng Man Ching sia stata riportata come “invest in loss”, a sua volta tradotta in italiano, nella edizione Feltrinelli, come “investire nella sconfitta”. Chi conosce meglio la lingua cinese sostiene però che "chi kui" significa letteralmente “mangiare perdita”. Ad arricchire il panorama (o a complicare le cose, fate voi...) c’è un altra frase, quasi omofona alla precedente, ed è "chi ku", che può tradursi come “mangiare amaro”.
Quest’ultima frase potrebbe quindi leggersi come la necessità di affrontare un lavoro tanto più utile quanto più duro e poco piacevole, mentre la precedente si presa a svariate interpretazioni, da quelle più “pratiche” basate sulla fisiologia anatomica (se un avversario molto forte ti spinge, se resisti ti travolge, se ti lasci andare, lo squilibri e cade) a quelle più attente all’aspetto emotivo e psicologico, dalla sconfitta della personalità egoica al perdere i difetti e le caratteristiche negative (caratteriali, posturali e comportamentali) del nostro comportamento quotidiano, un po’ come il liberare una pepita d’oro fluviale dalla massa di fango che la ricopre.
Come detto, ciascuna interpretazione può essere condivisibile in misura più o meno ampia, ma è poi importante, considerare queste come un punto di partenza, e cercare quella che – qui ed ora – sentiamo “nostra”.
Errare è umano
Per quanto ciascuno di noi possa credere o sperare di avere un particolare talento nascosto, questo è vero solo per pochissimi e per la maggior parte di noi è inevitabile fare molti errori all'inizio di qualunque disciplina o arte.Come spesso ci ricorda Sifu Severino Maistrello - Direttore Tecnico della Wudang Fu Style Academy e successore del Gran Maestro To Yu, allievo diretto del fondatore Fu Chen Song – le discipline interne hanno effetti meravigliosi ma hanno un unico difetto: bisogna praticarle con costanza per ottenerli. In altre parole, parafrasando un famoso detto, errare è umano, perseverare è una scelta di chi non vuole (raramente non può) progredire; e per procedere sulla Via che abbiamo scelto di percorrere non c'è altra scelta che continuare a correggere gli errori che rileviamo, in maniera da innalzare progressivamente il nostro livello di abilità.
Nelle discipline interne, come in tutte le arti umane, il processo di rettifica degli errori è anche il processo attraverso cui miglioriamo la nostra abilità; ne consegue che tentare di nascondere o minimizzare i nostri errori sarebbe non solo ingenuo, ma perfino controproducente. In altre parole, nella pratica delle discipline interne non si deve avere paura degli errori, perché solo chi non fa mai nulla non sbaglia mai; certamente non dobbiamo indulgere in questi o auto-assolverci ma piuttosto dobbiamo diventarne consapevoli, individuarli e fare del nostro meglio per correggerli, perché – come affermava Confucio “Commettere un errore e non correggersi: ecco il vero errore”.
A ciascuno il suo
Come è facile immaginare, anche nell'ambito della pratica di una stessa disciplina, ciascuno di noi incapperà in errori “personali”, perché ogni praticante ha le sue peculiarità, le sue abilità ed i suoi punti deboli; nondimeno possiamo elencare alcuni degli errori più frequenti o comuni, con l'unico scopo di aiutare chi legge ad individuarli1. Impazienza: Fare molto è bene, fare troppo è male perché – come ci ricorda un motto latino - “nessuno può essere obbligato all'impossibile” e quindi neppure noi possiamo pretendere da noi stessi di fare più di quanto siamo effettivamente in grado di fare. Quasi sempre e quasi tutti (ed il quasi – ammettiamolo – è un pietoso eufemismo) sovrastimiamo le nostre abilità e crediamo di poter fare di più e di meglio di quanto effettivamente possiamo. Capita così di voler “bruciare le tappe”, convinti come siamo di essere già in grado di affrontare pratiche avanzate e impegnative, salvo poi scoprire – spesso dopo il giudizio spietato di un insegnante sincero o di un compagno di pratica più esperto – che nella nostra pratica abbiamo trascurato particolari importanti oppure che i movimenti della nostra forma sono incompleti o ben diversi dalle posizioni finali che dovremmo assumere e mantenere.
Se i movimenti sono carenti, la potenza non è pienamente espressa e la funzionalità non è efficace e la soluzione è solo una: dare più valore alla qualità e non alla quantità delle cose che impariamo e fin dall'inizio cercare di cogliere i requisiti chiave ed i principi fondamentali della nostra pratica per applicarli in tutti gli esercizi.
2. Una mente inquieta. Le discipline interne come il Qi Gong, il Tai Chi Chuan o il Pa Kua Chang costituiscono un duplice allenamento del corpo e della mente. Quando la mente è calma, il flusso energetico è regolare.
Un vecchio detto legato alla coltivazione dello stile di vita recita: "Ruba un po' di svago da una vita frenetica" ed alla stessa maniera il nostro atteggiamento nei confronti della pratica dovrebbe essere quello di "rubare" un po' di tempo ai nostri impegni quotidiani per esercitarci ogni volta che è possibile. Ovviamente non si tratta di trascurare il lavoro o la famiglia ma piuttosto di mettere da parte le distrazioni per concentrarci sull'allenamento perché una delle peculiarità dell'allenamento delle discipline interne è la tempra del proprio carattere e l'addolcimento dell'umore.
3. Movimenti sconnessi. Parte integrante e fondamentale dell'addestramento delle discipline comprese nel curriculum tecnico del Vecchio stile Fu è la pratica delle posizioni del Tom-ma e l'analisi singola delle 37 forme di base che costituiranno poi le forme in sequenza che si andranno a praticare.
Al pari di un esperto carpentiere che costruisce un alto palazzo, dobbiamo essere consapevoli che il solaio di un piano è allo stesso tempo il pavimento del piano superiore, ovvero che una pratica ha valore in sé stessa ma anche come base propedeutica per la pratica successiva. Può così capitare che i singoli movimenti vengano eseguiti abbastanza bene, ma il collegamento e la continuità tra loro non siano fluidi.
Una forma di Pa Kua Chang o di Tai Chi Chuan è un'unità completa, non us semplice “incollaggio” di entità isolate unite tra loro e così, Se i movimenti di collegamento non vengono eseguiti bene, la qualità della forma che stiamo eseguendo non può essere manifestata e la continuità e il flusso sono compromessi. Occorre quindi studiare attentamente la correlazione tra ciascuna postura e prestare altrettanta attenzione ai passaggi di transizione da una forma alla successiva, assicurandoci che ogni postura sia completa in tutte le sue parti (respiro ed energia, espressione marziale, effetto benefico) prima di passare alla successiva, in maniera di rendere i movimenti rotondi e circolari.
4. Rigidità. Quando la morbidezza e la flessibilità sono assenti, i movimenti sono rigidi e tesi, tertium non datur. Per superare la rigidità, è opportuno allenare ripetutamente le posizioni che riteniamo critiche fino a sentire la "qualità" della forma che stiamo eseguendo perché – come ci ricorda il Maestro Severino Maistrello: “Per migliorare servono tre cose: pratica, pratica e pratica!”.
5. Svogliatezza. Purtroppo capita che per una malintesa interpretazione della “morbidezza” delle discipline interne faccia sì che i movimenti eseguiti assumano un "aspetto malaticcio". Uno degli esempi più frequenti che utilizza Sifu Maistrello è quello di visualizzare i rami di una pianta; un conto è la flessibile vitalità di un ramo di salice, verde ed elastico, immediatamente reattivo ed adattabile agli eventi esterni; altro è un ramo cadente ed appassito, con le foglie moribonde ed alla mercé di quanto accade loro intorno.
Sebbene le discipline interne come il Qi Gong, il Tai Chi Chuan o il Pa Kua Chang siano basate sul rilassamento, la loro applicazione marziale richiede che i movimenti abbiano "potere all'interno della morbidezza". C'è un dinamismo che deve necessariamente derivare dalla quiete, dalla scioltezza e dalla morbidezza, che danno energia al corpo e riempiono lo spirito.
6. Instabilità. Uno dei difetti che più facilmente possiamo riscontrare, anche in praticanti esperti, è il mancato radicamento del corpo, con una struttura vacillante ed un equilibrio precario. Di conseguenza, la parte inferiore del corpo è traballante e instabile, i piedi non sono ben piantati sul terreno, il Kua non è aperto, non riusciamo a mantenere una posizione “seduta” con nuca e osso sacro piombati tra loro e la postura delle gambe non è arrotondata.
7. Sovrappensiero. Sebbene la pratica debba essere sempre attenta e consapevole del “qui ed ora”, è altrettanto vero che il corpo necessita dei suoi tempi per apprendere e memorizzare e quindi se ci soffermiamo troppo ad analizzare quanto facciamo pensando eccessivamente ai tanti aspetti della nostra pratica finiamo per “mettere troppa carne al fuoco” generando confusione e incapacità di andare avanti, al pari di un millepiedi che si fermi troppo a pensare a quale delle sue gambe debba muovere per prima (se ve lo state chiedendo si, anche questo è un esempio che usa spessso Sifu Severino Maistrello!).
8. Mancanza di chiarezza. Praticare è cosa buona, ma per essere utile deve essere fatto con consapevolezza di intenti e chiarezza di idee. Limitarsi a riprodurre passivamente i movimenti del nostro insegnante ci renderà simili a delle scimmie ammaestrate, che eseguono dei gesti a loro incomprensibili. In altre parole, quando le posizioni anatomiche e il percorso fisiologico sono poco chiari e indefiniti, il rischio di cadere nella imprecisione è di fatto molto elevato. Per questo motivo, nel curriculum tecnico del Vecchio stile Fu sono studiati ed approfonditi tanto l'aspetto Wu e le applicazioni marziali delle forme, che l'aspetto Wen ed il loro effetto terapeutico e di benessere.
Sebbene ogni praticante abbia caratteristiche individuali specifiche, vi sono regole comuni che debbono essere rispettate, sia pure adattandole alle singole possibilità di ciascuno studente: le posizioni delle mani e delle braccia, la direzione dello sguardo, le spalle rilassate, l'apertura del Kua, la posizione delle ginocchia rispetto ai piedi sono solo alcune di queste. Per ottenere i risultati migliori è ovviamente opportuno che Gli studenti devono essere guidati da un insegnante esperto adeguatamente formato e certificato (come nel caso di quelli riconosciuti dalla Wudang Fu Style Academy) e non affidarsi a Sifu YouTube senza alcuna guida e confronto. Al pari di un mobile che compriamo in un grande magazzino di arredamenti, possiamo “montare e smontare” una forma ed i suoi singoli componenti solo se disponiamo di istruzioni adeguate e comprensibili.
Per concludere...
L'elenco che abbiamo riportato potrebbe proseguire con altrettanti punti, ma crediamo che quelli riportati siano più che sufficienti per consentirci un onesto “esame di coscienza” che non deve avere lo scopo di farci sentire “sbagliati” ma indicarci i punti su cui puntare per migliorarci.Abbiamo cominciato questo articolo con una confessione personale e così lo concludiamo e allora, alla luce di quella bocciatura, cosa ho imparato? Cosa mi ha fatto guadagnare questa “perdita”, che investimento ho fatto in quella “sconfitta”?
Innanzi tutto, è cambiato il rapporto con il Maestro e, per quanto possa apparire strano, è cambiato in senso positivo.
Per un insegnante è più facile promuovere che bocciare un allievo, per tutta una serie di motivi, e comunicare ad un allievo che non lo si ritiene idoneo al passaggio di grado è una esperienza assai poco piacevole. Non poche volte, di fronte ad una bocciatura, l'allievo si offende e cerca altrove la gratificazione che gli è stata negata e quindi per un insegnante bocciare un allievo significa anche ritenere (o quanto meno sperare...) che questo sia abbastanza maturo e consapevole nell’accettare la decisione e nel comprenderne i motivi, primo tra tutti che l’allievo può fare di più e meglio, e che sia disposto a farlo.
Ecco quindi che una bocciatura può costituire anche un attestato di stima, uno sprone, un invito a migliorare. Certo è dura da mandare giù, specie quando sei convinto di aver fatto un esame che merita almeno la sufficienza e quando alla fine tutti ti fanno i complimenti, è un boccone amaro da masticare, appunto. Però lo confesso, senza quel boccone, quasi sicuramente mi sarei sentito un po’ più “arrivato”, forse avrei trascurato un po’ l’addestramento e – insomma – avrei corso il serio rischio di sbragarmi.
Ho accettato il verdetto dell’esame in silenzio, ho rimandato la richiesta di spiegazioni ad un momento diverso, più sereno e meno affollato, ho accettato la decisione del Maestro sapendo che era giusta, anche se non mi erano completamente chiari i motivi (difficile essere Maestri di sé stessi). Così per me è stato una conferma del rapporto di stima sopra detto il fatto che sia stato il Maestro a volermi spiegare i motivi della mancata promozione ed i punti da migliorare; una spiegazione non dovutami e quindi doppiamente apprezzata.
Masticare amaro non è piacevole, ma è quasi sempre utile; lo è stato anche per me quella volta e da allora ringrazio il Maestro che ha voluto concedermi quella possibilità e nel frattempo, ricordo a me stesso che pratica e lavoro sono i compagni indispensabili per prepararsi alle prove a cui la vita ci sottopone.